Norvegia, Irlanda e Spagna: "Riconosciamo lo stato di Palestina"
Furiosa reazione israeliana che richiama gli ambasciatori: "Farlo adesso significa mandare un messaggio terribile al mondo e ai palestinesi: il terrorismo paga"
Dal 28 Maggio, secondo annunci contemporanei nei rispettivi Paesi, Norvegia e Irlanda riconosceranno formalmente lo Stato palestinese e saranno seguiti a breve anche dalla Spagna del primo ministro Sanchez, da sempre molto vicino alla causa palestinese. Di fatto, Spagna e Irlanda sarebbero il secondo e terzo Paese dell’Unione Europea a riconoscere lo Stato palestinese dopo la Svezia, visto che la Norvegia non fa parte del’UE e che altri paesi avevano già riconosciuto il nuovo stato prima di entrare a far parte dell’Unione. Del resto, ben 140 Paesi hanno già deciso il riconoscimento, il 70% dei membri delle Nazioni Unite: quasi tutta l'Asia, l'Africa e l'America Latina. Tra quelli che mantengono relazioni diplomatiche con l'Autorità Nazionale Palestinese, ma ancora non hanno riconosciuto ufficialmente lo stato, ci sono invece Stati Uniti, Canada, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda.
La Svezia fino ad oggi era l'unico Paese dell'Ue ad essersi pronunciata per il riconoscimento, nel 2014, mentre Malta, Cipro, Polonia, Ungheria, Cechia, Slovacchia, Romania e Bulgaria avevano riconosciuto la Palestina appunto quando ancora non erano membri dell'Unione. La posizione ufficiale a livello europeo, riconfermata anche durante il vertice dei capi di Stato e di governo dell'ottobre 2023, supporta il processo di pace e la soluzione a due Stati. Ma a tempo debito e quando si riterrà che esistano le condizioni giuste per farlo concretamente e senza creare ulteriori tensioni nell’area.
Il primo ministro norvegese Jonas Gahr Støre ha motivato la scelta sostenendo che non ci può essere pace in Palestina senza il riconoscimento di uno stato palestinese, e che la decisione del suo Paese è stata presa anche “nel migliore interesse di Israele”. Nessuno ne dubita, ma a Gerusalemme e Tel Aviv sembrano pensarla diversamente: il ministro degli esteri israeliano Israel Katz ha richiamato immediatamente per consultazioni gli ambasciatori in Norvegia e Irlanda - i primi due Paesi ad annunciare la svolta - pubblicando sul suo profilo X una durissima nota: “E’ un terribile messaggio al mondo e ai palestinesi: il terrorismo paga”.
Dopo il massacro del 7 ottobre in Israele ovviamente la questione della soluzione a due stati - che pure la maggior parte degli israeliani, a determinate condizioni, approva (o almeno approvava fino al 7 ottobre) - era stata spazzata via dallo stato di choc collettivo e dalla necessità di decidere come recuperare più di 200 ostaggi e come affrontare un volta per tutte la questione Hamas. E Hamas, che certamente non è mai stato schierato per la soluzione a due stati al contrario dell’ANP, sembra dare ragione alle parole del ministro Katz, dando il benvenuto alla decisione di Norvegia e Irlanda: "Questo è un passo importante sulla strada per fondare il diritto del popolo palestinese sulla sua terra, compresa la creazione di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme come capitale", si legge in una dichiarazione rilasciata dall'organizzazione. Peccato che Hamas abbia in testa una soluzione non a due ma a un solo stato, (esattamente come gli ultraconservatori israeliani): per Meshal, Hanyeh, Deif, Sinwar lo Stato palestinese va “dal fiume al mare” cioè senza Israele di mezzo. “Soprattutto dopo il 7 ottobre - ha detto qualche mese fa Khaled Meshal, uno dei fondatori dell’organizzazione - la "stragrande maggioranza del popolo palestinese" ha rinnovato il sogno e la speranza di "una Palestina dal mare al fiume e dal nord al sud".
Al di là delle posizioni guerrafondaie dei due estremi del problema - appunto i terroristi di Hamas e l’ultra destra israeliana - tutti sostanzialmente condividono in Medioriente e nel mondo l’ipotesi della soluzione a due stati, due popoli. E allora perché tante reazioni negative alla decisione di Norvegia, Irlanda, Spagna ,e a breve anche Slovenia, di scegliere il sì ufficiale allo Stato palestinese? Perché a suscitare perplessità non è il riconoscimento dello Stato palestinese in sé, quanto il tempismo della decisione. C’è una guerra sanguinosa in corso, ci sono coloni abusivi che assaltano palestinesi nella West Bank, c’è un odio ai massimi livelli tra i due popoli, c’è, prima di ogni altra cosa, una Palestina governata da Hamas: e nessun israeliano potrebbe mai sostenere uno Stato palestinese guidato da Hamas. Quindi: era il momento giusto per fare una scelta simile?
Pur non avendo ancora riconosciuto la Palestina, gli Stati Uniti stanno certamente facendo molto di più rispetto a un passo formale e oggi fondamentalmente inutile come quello compiuto da Norvegia, Irlanda e Spagna: solo grazie alla sospensione della fornitura di molte armi, alla minaccia di bloccarne altre e alle pressioni quotidiane del presidente Biden e del segretario di stato Blinken, Bibi Netanyahu ha dovuto finora limitare l’ultimo devastante attacco a Rafah che aveva in mente. Certo può sembrare assurdo parlare di azione “limitata” di fronte a 35mila morti, ma proprio per questo si può soltanto immaginare cosa sarebbe stato - e purtroppo cosa potrebbe ancora essere - l’assalto finale considerando il numero assurdo di vittime civili che sono cadute e cadono nella caccia ai terroristi di Hamas. Sono vittime palestinesi che non solo non hanno nulla a che fare con Hamas, ma ne sono di fatto ostaggio. E Hamas, con Hezbollah libanese, gli Houthi yemeniti, i gruppi sciiti iracheni, fa parte a pieno titolo di quell’”asse della resistenza” guidato dall’Iran che ha come unico scopo prima la cancellazione di Israele dalla carta geografica, poi l’assunzione della guida dell’Islam in Medioriente e la conquista di tutti i luoghi santi. A cominciare dalla Mecca.
Detto questo, l’occasione storica sprecata da Israele, e addebitabile in gran parte - ma non soltanto - al premier Netyanyahu è tragicamente clamorosa. Mai in questo secolo Israele aveva ricevuto tanta solidarietà e vicinanza internazionale come dopo il pogrom del 7 ottobre. Ebbene solo poche settimane più tardi, con l’Apocalisse provocata a Gaza, questa solidarietà è pressoché svanita, al punto che il 7 ottobre veniva e viene ormai liquidato come una premessa fastidiosa che non cambia il giudizio sulla gravità delle azioni a Gaza. Sembra di sentire il ritornello sull’Ucraina “premesso che c’è un aggredito e un aggressore…”, sistematicamente intonato da gente che subito dopo declama le tesi della propaganda russa. Da noi si sente dire: “Premesso che il 7 ottobre è stata una cosa orribile …” e giù cannonate su Israele. Ma tant’è. E Netanyahu, sordo per troppo tempo ai moniti di Biden, ne porta addosso la maggior parte della responsabilità.
“Benjamin Netanyahu mette in pericolo la soluzione dei due Stati'e non ha "un progetto di pace", ma ha provocato con la sua politica solo "dolore e distruzione" nella Striscia di Gaza, ha detto il premier spagnolo Pedro Sànchez alla Camera. "Questo riconoscimento non è contro Israele e il popolo di Israele, né a favore di Hamas", ha precisato Sanchez, che si è detto pronto "ad assumere le conseguenze" che potranno venire da Tel Aviv.
Ma forse la sintesi più saggia è nelle parole del ministro degli Esteri francese, Stéphane Séjourné: il riconoscimento dello Stato palestinese "non è un tabù" ma ora non è il momento giusto. Punto. Perché, secondo Parigi e molte altre capitali (Roma inclusa) non ci sono le condizioni "in questo momento affinché questa decisione abbia un impatto reale" sul processo che punta alla soluzione a due Stati.
La soluzione a due stati è una cosa seria, probabilmente definitiva per gli equilibri mediorientali e quindi delicatissima. Non si può risolvere a colpi di slogan ma con il lavoro incessante e invisibile che stanno facendo molti protagonisti sul campo, soprattutto americani e sauditi. Cercando soprattutto di ricostruire una leadership palestinese credibile, nuova, affidabile agli occhi di Israele e della comunità internazionale. E’ il presupposto indispensabile perché il processo possa andare avanti davvero. Il resto sono chiacchiere da sbandieratori pro-pal.
Ritengo che l'espressione di giudizi (di qualsiasi natura essi siano) su Israele e sull'operato delle sue Amministrazioni debba essere sempre molto prudente e attenta. Lo Stato d'Israele rappresenta una sorta di anomalia storica: fondato artificiosamente nel '48 per dare una terra a quanto restava degli Ebrei europei appena reduci dall'Olocausto nazista. Vi era stato, peraltro, un precedente: prima di passare alla 'soluzione finale del problema ebraico', annunciata nella tristemente famosa conferenza di Wannsee nel '42 dal 'fedele Heinrich' (Himmler) di concerto con gli altri suoi accoliti (Reinhard Heydrich, Adolf Eichmann, ecc.), gli stessi Himmler e Heydrich avevano lavorato per diverso tempo all'ipotesi di spedire tutti gli Ebrei europei in Madagascar, che in tal modo sarebbe poi divenuto un Israele ante litteram. Poi, però, gli alti costi che l'operazione avrebbe comportato, i tempi lunghi per il suo completamento e le minacce continue della flotta inglese durante il lungo tragitto in nave, dopo molteplici valutazioni sconsigliarono in definitiva tale soluzione. Quindi, il problema di individuare un territorio che potesse ospitarli si pose già allora, anche se solo e semplicemente per realizzare un Reich millenario 'Juden free'. E' altrettanto necessario osservare, peraltro, che, essendo i territori mediorientali sui quali furono tracciati nel '48 i confini dello Stato Ebraico un ex protettorato inglese, questi ultimi e, per esteso, il consesso tutto delle potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale avevano tutti i diritti di fare come meglio credevano, nell'ottica di dare una Patria ai poveri sopravvissuti ai lager nazisti per mettere finalmente un punto alla questione ebraica e scoraggiare e prevenire future ulteriori persecuzioni: sei milioni di morti potevano ben bastare. E' pur vero che Benjamin Netanyahu non è certo un moderato, tutt'altro, ma ritengo che per noi occidentali sia molto difficile poter comprendere appieno le ragioni e le reazioni del popolo ebraico e della sue amministrazioni utilizzando i nostri usuali metri di misura, la nostra morale e il nostro buon senso. Dicevo prima: sei milioni di morti possono bastare: ebbene, io credo che, al netto delle frange ultraortodosse che pure hanno le loro buone colpe, avendo continuamente intrapreso campagne espansionistiche illecite e anche sostanzialmente immotivate (i famosi coloni coi loro kibbutz, ecc.), la popolazione ebraica, oggi, non è più disposta a scendere ad alcun compromesso riguardo alla sua sicurezza né - tantomeno - ad accettare di essere non solo sotto continua e costante minaccia, ma anche di dover subire colpi terribili, vigliacchi e sotto alla cintura come quello del 7 ottobre scorso, oltre ai continui cannoneggiamenti e lanci di razzi di cui sono vittime da sempre. Sei milioni di innocenti, sicuramente, richiedono che ne sia onorata la memoria agli occhi dei loro discendenti di oggi. Certo, la scelta della collocazione geografica del nascituro Stato d'Israele non poteva essere più infelice, ma a chi dare la colpa in quel tempo turbolento di disorientamento e distruzione...?